JAGUAR E-TYPE
Testo di Roberto Marrone
Foto di Jay Tomei (The Looking Glass)
Ricordo quel giorno, come fosse stato ieri, anche se ormai sono trascorsi sei o sette anni. Era la prima volta che potevo fare un giro tranquillamente con la mia auto, dopo le vicissitudini del restauro patite a causa di troppe persone sbagliate incontrate lungo il cammino, ora potevo finalmente lasciare tutto alle spalle, era targata ed assicurata ed io ero libero di portarla a spasso per una bella strada di campagna. Il verde c’era, anche se non era inglese, ma mi dovevo accontentare. Lo ammetto, non ero comodo nell’angusto abitacolo e dovevo usare un paio di scarpe adatte per non schiacciare due pedali contemporaneamente, ma ogni piccolo disagio si trasformava all’istante in una caratteristica che da sopportabile, nell’arco di pochi istanti si sarebbe trasformata prima in particolarità e poi persino in pregio – anche il dover spostare il ginocchio per mettere la freccia. Follia? No. È semplicemente amore che ha messo le radici molto tempo prima, è l’effetto giocattolo – bambino/adulto, mi spiego meglio, o almeno ci provo.
Quando nel lontano 1961 la E-Type venne presentata, io andavo ancora all’asilo, ma solo pochissimi anni dopo, complice la Dinky Toys, feci la sua conoscenza e fu amore immediato. Devo dire che non venni influenzato nemmeno da Diabolik, in quanto la mamma ritenendo il fumetto troppo violento (erano altri tempi) fece di tutto perché io non lo seguissi, anche se anni dopo recuperai parecchie annate precedenti. Non era un periodo in cui si potevano trovare informazioni o immagini, c’era una stampa molto ristretta e solo in qualche film faceva brevi apparizioni, con appena il tempo di vederla e mancava la possibilità di registrare. Ricordo che mi feci prestare più volte da mio cugino Enrico (da sempre lettore di Quattroruote) il numero con le foto e la prova svoltasi nel 1963, quasi consumai quelle pagine, anche se ancora non comprendevo i dati, le prestazioni o le caratteristiche tecniche, ma le foto parlavano da sole. Nella realtà invece, passarono altri anni prima che ne potessi vederne una dal vero e quando questo avvenne, ero già ben informato sulle varie serie prodotte e se per i modellini potevo apprezzare anche la 2+2 o la terza serie, nel concreto rimanevo fermo sulla bellezza pura della prima versione specialmente in versione coupé, in quanto la cabrio a mio avviso perdeva quella irripetibile linea data dal tetto discendente che si armonizza alla perfezione con la coda. La ricordo, in una piazza della mia città, era bianca con gli interni rossi, non ricordo bene se i sedili fossero della prima serie, avrebbe potuto essere anche una prima serie e mezzo o un 4.2 MKI, ma sono certo che i fari anteriori fossero carenati, come nel mio modellino; ricordo che suscitava l’ammirazione dei passanti, chissà se come capita oggi dicevano già sciocchezze, o se guardavano solamente. Ero insieme a mio zio e non fu facile per lui farmi andare via in pochi minuti, non funzionò nemmeno la classica promessa di andare a prendere un gelato.
Da quel giorno, di anni ne sono passati e non pochi – con l’età arriva la patente, la prima auto, o meglio, le solite auto, alcune le ho odiate, altre mi hanno lasciato indifferente, di alcune ho avuto piccole nostalgie, le ho cambiate spesso, sicuramente tante, troppe, varie marche e quando arrivò la prima Jaguar il pensiero fisso tornò a lei. Altre due Jaguar ancora, sino a quando la decisione di cercarla divenne inevitabile, (si vive una volta sola e se anche ci fosse la reincarnazione … non te ne ricorderesti, quindi non conta). Oggi eccola ultracinquantenne, ma con un fascino ineguagliabile ed è forse proprio la sua bellezza, unita anche a potenza e prestazioni, che fanno dimenticare alcune scomodità, che per noi abituati alle ultra tecnologiche di oggi, se non si è veri appassionati sono difficili da comprendere. Viaggiare con il finestrino aperto, un po’ per farci stare anche il braccio sinistro, un po’ perché se fa caldo è inevitabile, ma rilassati, ascoltando la voce del sei cilindri, il risucchio dei tre carburatori. Si, consumate, bevete quello che volete, tanto io sono astemio e quindi bilancio. Penso a quando l’elettrauto voleva mettere lo stereo … che eresia! Anche se sono musicista, la musica che voglio ascoltare è quella che arriva dal cuore del felino, senza disturbi. Poi se la strada lo permette, una bella accelerata per sentirla urlare, perché oltre i 4.000 giri il suono cambia ancora ed è favoloso. Si macinano chilometri intervallati da qualche sosta anche solo per fotografarla nel contesto di un bel paesaggio privo di riferimenti temporali e per farla sentire più a suo agio, le ho comprato una targa inglese, le dona molto di più. Durante una sosta, una controllatina al motore, sollevando l’enorme cofano che comprende i parafanghi e lasciando in bella vista tutta la meccanica – anche questa operazione è molto coreografica. Scattando ancora qualche foto, approfittando del fatto che la zona è deserta, mi rendo conto che la sua forma è talmente bella che cambiando anche di poco l’angolazione, riusciamo sempre ad ottenere immagini stupende, ma il merito è tutto suo, anzi di Malcolm Sayer, di Sir William Lyons e di Bill Haynes. Non mi stancherò mai di ringraziarli.
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ASTON MARTIN DBS
Testo di Antonio Iafelice
Apro la portiera della DBS tirandola leggermente verso l’alto, così come da brevetto Aston Martin, e subito l’occhio mi cade sulla scritta argentata “Hand built for Giancarlo” impressa sul battitacco. In quel preciso momento realizzo quanto l’Aston Martin DBS davanti a me fosse speciale, almeno quanto il suo proprietario che risponde appunto al nome di Giancarlo. La guardo, con quel suo blu, affascinante nei suoi colori tono su tono, e Giancarlo, elegantissimo nel suo completo grigio fumo di Londra, che nel frattempo è in posa vicino la sua bella. Proprio quel quadretto inatteso mi dà modo di capire quanto le automobili possano somigliare ai rispettivi proprietari. Giancarlo è una di quelle persone che cattura col suo modo di mostrarsi, di parlare e di fare. È una persona che anche al solo sguardo trasmette eleganza e buon gusto, che si differenzia con dettagli di stile e si distingue per un innato savoir faire, che si finisce con l’apprezzare ancor di più nel momento in cui si scambia qualche parola. Giancarlo si fa forza della sua “presenza scenica” da manager affermato ma non ostenta, spiega con decisione ma sa ascoltare, è tagliente ed incisivo nei modi ma rispettoso. Provate a fare un giochino: prendete tutte le sfaccettature con cui ho appena descritto Giancarlo e provate ad associarle all’Aston Martin. La DBS è elegante, ha dettagli di stile e possiede un savoir faire unico, si apprezza ancor di più guidandola, ha una presenza scenica importante ma non imbarazzante, è tagliente nelle prestazioni ma senza eccedere. La DBS e Giancarlo si somigliano in maniera quasi imbarazzante.
Il luogo che ci accoglie sembra essere uno spaccato perfetto di una tipica campagna inglese in cui un cielo plumbeo ed un manto di foglie giallognole fanno da cornice alla stilosa DBS di colore blu. È con questo sfondo che alcune peculiarità stilistiche proprie della DBS risaltano maggiormente come le feritoie sul cofano, le minigonne più pronunciate con annessi sfoghi d’aria e l’ampio estrattore posteriore in carbonio. A prima vista sembra che la DBS perda un po’ di eleganza rispetto alla DB9 da cui deriva a favore di una sportività più estrema, ma non è così: non è l’eleganza innata a venir meno, è soltanto un piglio più sportivo a venir fuori ma in maniera del tutto pacata e visibile solo agli occhi di chi lo vuol vedere. Nell’abitacolo la sensazione non cambia: mi accomodo sul sedile ottimamente rifinito in morbida pelle blu ed inserisco la chiave (che poi tanto chiave non è!) nell’apposita fessura per dar vita alla DBS. In rapida successione nel piccolo display integrato nel conta chilometri appaiono le scritte “Power, Beauty, Soul”, il contagiri si anima con la lancetta che si muove nel caratteristico senso antiorario e i due tweeter dell’impianto audio “Bang & Olufsen” fuoriescono dalla parte superiore della plancia. Ma più di ogni altra cosa prendono vita i 517 cv. La prima cosa che mi colpisce del V12 è la sua incredibile elasticità che consente alla DBS di avanzare senza il minimo affanno anche nel caotico traffico cittadino rivelando una souplesse impensabile per una vettura così potente e permettendo a me e Giancarlo di proseguire senza intoppi l’amabile conversazione iniziata poco prima. Ma la DBS non è solo questo, ci mancherebbe.
Il tempo di uscire fuori città che la Aston Martin smette i panni della comoda ed elegante supercar per trasformarsi in qualcosa di più tagliente ed affilato. Vedere le lancette del contachilometri e del contagiri quasi “incontrarsi”a gran velocità mi regala un’esperienza visiva alquanto originale. Ed anche l’acustica non è certamente da meno: una interminabile galleria amplifica il canto già vigoroso del V12 che, sotto i colpi dell’acceleratore, lascia campo libero ad una voce roca che permette all’anima più graffiante della DBS di venir fuori. Di colpo sia io che Giancarlo smettiamo di chiacchierare per goderci l’anima più viscerale della DBS che si è svegliata coi suoi 517 cv che hanno iniziato a galoppare. La DBS vanta 60 cv in più rispetto alla DB9 da cui deriva ed oltre 65 kg in meno sul piatto della bilancia grazie all’adozione della fibra di carbonio per numerose componenti: il miglior rapporto peso/potenza che ne scaturisce va tutto a vantaggio delle dinamiche di guida e la DBS si dimostra subito una perfetta Gran Turismo nel senso più vero del termine.
Il volante è estremamente diretto e mi dà modo di pennellare le curve con assoluta precisione, il motore spinge sempre forte e posso schiacciare il pedale del gas fino a raggiungere i 6000 giri/min, inoltre un pulsante “magico” sulla console mi permette di tarare in maniera più rigida la risposta delle sospensioni per avere un piacere di guida ancor più coinvolgente. Contestualmente l’abitacolo mi concede il lusso (è proprio il caso di dirlo) di guidare in maniera decisamente comoda e quasi rilassata, sensazioni impensabili su molte competitor. La creatura di Gaydon per sua natura non vuole essere estrema ed appariscente come magari le supercars costruite dalle parti di Maranello, Sant’Agata Bolognese e Stoccarda, ma vuole garantire prestazioni superbe senza rinunciare ad un comfort da prima classe. La DBS, per Giancarlo, è la sintesi perfetta della supercar: bella ed elegante nelle sue forme sinuose ma mai appariscenti oltremisura, veloce e prestazionale ma senza essere scorbutica e nervosa, perfetta anche per i lunghi viaggi grazie ad un comfort impensabile. Per me la DBS è una gran turismo per palati fini, per chi vuole tutto senza rinunciare a niente. Ricordate le descrizioni iniziali riguardo Giancarlo e la sua DBS? Dopo aver fatto un giro assieme a lui nella sua Aston Martin posso capire il connubio che può legare una persona alla sua automobile ed ancor di più posso intendere il rapporto tra una persona che per me resterà sempre speciale e la sua supercar tutta “power, beauty, soul”.
Quella volta è stata l’ultima che guidai la Aston Martin DBS e l’ultima che vidi Giancarlo.
Questo ricordo lo dedico a lui.