Top Down
LE CABRIO
Testo Andrea Albertazzi / Foto Severin Demchuk
Un mattino ti svegli e ti rendi conto che la pigrizia invernale è scomparsa, andata, dispersa nel nulla insieme a quegli ultimi cumuli di neve che sanciscono la fine del letargo invernale per le tanto amate strade di montagna. Con il vento tra i capelli e la strada riflessa sulle lenti degli occhiali da sole, lasci che la brezza primaverile – o ancor meglio la delicata frescura estiva – accarezzi la pelle del braccio comodamente a penzoloni oltre il finestrino. Come non senti il bisogno di affannarti nel traffico che ti divide dal garage di casa al tuo odierno luogo felice, non hai neppure quella fame di velocità, lasciando per una volta spazio a un’andatura che segue il ritmico e placido alternarsi di una serie di curve che fungono da sfondo per qualcosa di inusualmente intimo.
Il motore entra nell’abitacolo, ma lo fa in maniera più discreta perché smorzato dall’aria che si scontra sull’estremità del parabrezza. Sopra la testa un cielo azzurro che non lascia intravedere il benché minimo accenno di nuvole, probabilmente rintanate in disparte a godersi un momento così pregno di emozioni. La musica che si percepisce a tratti è delicata, ma al contempo rilassante e in grado di indirizzare l’umore verso quell’insieme di suoni che ricalcano le disconnessioni dell’asfalto, percepite oggi più che mai, con un incedere costante, morbido e che evidenzia quanto una carrozzeria cabriolet possa elevare il coinvolgimento alla guida.
E poco importa se i chilometri che sto percorrendo non sono quelli che mi avvicinano alle assolate curve fuori Santa Monica, ma delimitano Lazzago, poiché il mio sguardo è concentrato su quel punto a metà tra le fine del cofano anteriore e l’inizio del tappeto asfaltato, un punto di contatto tutt’altro che concreto, eppure nemmeno astratto e che permette a quel dolce strumento chiamato automobile di baciare uno dei più emozionanti incontri della propria vita motoristica. L’assenza di filtri acustici permette di percepire lo sforzo meccanico della vettura che disegna un tortuoso percorso che come destinazione assoluta ha la massima espressione di guida intesa da chi la conduce. Oltre un braccio che alterna la propria presa tra la corona del volante e la leva del cambio, sempre innescata con totale pace dei sensi, un ciuffo svolazza alla mercé degli elementi e staglia un sorriso direttamente proporzionale all’incremento di giri motore, una volta che i centri urbani sono stati lasciati alle spalle.
Che le vogliate chiamare cabriolet, convertibile, roadster, targa, o in qualsiasi altra maniera, un’auto scoperta è ciò che più avvicina la visione di esperienza di guida tra due e quattro ruote. In questo caso, seppur mantenuto il senso di protezione offerto dall’abitacolo e da una comoda seduta, senti un più vivido contatto con la strada, con ciò che sta attorno, con lo stesso cielo, apprezzando un punto di vista diverso rispetto al solito e che inserisce il guidatore e i suoi passeggeri in un contesto che li sistema come fulcro definitivo dell’esperienza stessa. Con l’aumentare della velocità e della concentrazione una volta che le curve non chiedono altro che essere prese per il collo, quel fruscio naturale viene sovrastato dal ruggito del motore, sempre pronto a ridisegnare la forma di quel sorriso che pochi attimi prima suggeriva compiacimento ed ora soddisfazione.
Il gioco diventa quasi meccanico, proprio per l’intenzione di solleticare queste emozioni così lontane da quella guida più tradizionale a cui ci siamo abituati con la variante a tetto rigido, dove tutto quel che accade fuori passa attraverso un enorme filtro meccanico e ci arriva soltanto in parte. Poi, dopo aver assistito al più romantico tramonto della vostra esperienza motoristica, il silenzio della sera fa capolino e rende quell’abitacolo un luogo ancora più magico. La notte, nella quale l’unico rumore è quello di un motore che procede sazio di chilometri verso casa, è un indefinito contenitore che consente di voltare la pagina finale di una grande piccola avventura vissuta nella semplicità più totale, al tempo stesso trasformata radicalmente dall’assenza di quel confortevole pannello che ci ha coperto la testa durante tutto l’inverno.
La guida en plein air è qualcosa che crea dipendenza, un personale modo di intendere il proprio rapporto a tre con l’automobile e la strada e che condividerete con perfetti sconosciuti una volta incrociati nella direzione opposta e con indosso il medesimo senso di appagamento. Che decidiate di renderlo l’esemplificazione del vostro nirvana, oppure il modo migliore per aumentare il proprio battito cardiaco una volta a testa bassa su una strada tortuosa, sarà qualcosa che stravolgerà il concetto di guida come mai avreste pensato. E credetemi se vi ripeto che in questo caso, più che in ogni altro che mi possa venire in mente oltrepassando il segnale di benvenuto in quel di Cernobbio, potenza e prestazioni non sono mai state così superflue. Un po’ come il fatto che lascerò il tettuccio aperto questa notte. Il mattino arriverà presto.