Testo Carlo Brema / Foto Jaguar
La supercar di casa Jaguar è nata in un contesto difficile, basti pensare che doveva vedersela con rivali del calibro di Ferrari F40, Porsche 959 e Bugatti EB110. Difficile perché dovette far meglio e al contempo riportare in alto il nome Jaguar. Tutto ebbe inizio grazie al “theSaturdayClub”: nome rappresentativo che si diede il Team di ingegneri e tecnici che lavorarono alla creazione del primo prototipo già nominato XJ220, sigla che richiamava la XK120 uscita quarant’anni prima e che – come lei – suggeriva la velocità massima raggiungibile in miglia orarie. O almeno negli intenti, visti i “soli” 213 mph poi omologati.
Siamo nel periodo tra il 1980 e il 1992 (anno del debutto di questo modello) e a capo di Jaguar troviamo John Egan, il quale ha da poco ricevuto l’incarico di dimostrare al mondo intero le capacità del brand. Su un altro fronte, Jim Randle occupa la posizione di responsabile della parte ingegneristica ed è colui che riesce nell’intento di arruolare dodici persone disposte a lavorare durante il tempo libero e soprattutto gratis. Proprio così prende vita il progetto dell’allora più veloce vettura al mondo. Con in mente le avversarie più vicine si iniziò a delineare la conformazione tecnica che fin da subito comprese un potente V12 associato alla trazione integrale: soluzione pensata per rendere più fruibile un tale mostro, anche sotto la frequente pioggia presente in Inghilterra.
La Tom Walkinshaw Racing, dell’omonimo fondatore, divenne immediatamente partner fondamentale, in quanto vecchia conoscenza della casa e co-autrice dei successi ottenuti nel campionato “ETCC” con la XJR-S (ma non solo). Per questo, la prima idea fu quella di ripetere l’avventura partecipando alla Le Mans con un nuovo modello da corsa. Randle, non d’accordo, seguì l’idea che la sua mente si era posta come obiettivo: produrre una stradale inglese ad altissime prestazioni. Questa strabiliante vettura si presentò al grande pubblico quasi improvvisamente e a seguito di enormi sforzi, al Birmingham Motorshow del 1988, come prototipo ufficiale; il frenetico e incredibile lavoro del team impressionò Egan, che così appoggiò l’idea in modo ufficiale. Chi assistette alla presentazione scoprì che sotto la sensuale linea trovava posto un V12 da 6.2cc, una rivisitazione del progetto anni ’60 di Walter Hassan (progettista dell’altrettanto famoso Coventry Climax) e sviluppato da Cosworth per le corse nell’86.
Rivelatosi potentissimo fin dai primi test, il bisogno di adottare però un propulsore ad hoc per l’uso stradale e con emissioni accettabili dimostrò con altrettanta rapidità l’anti-economicità del progetto. Non a caso, la scelta ricadde sul 3.5 litri V6, preso direttamente dalla MG Metro 6R4, famosa vettura ‘Gruppo B’. Soluzione che, almeno nelle intenzioni iniziali, ispirò aerodinamica e assetto della XJ220: accreditata di circa 1.360 Kg di deportanza a 220 miglia orarie. A tale scopo, il prototipo venne dotato di aerodinamica attiva e assetto a controllo elettronico, in modo da coniugare doti da downforce-car con quelle di una veloce GT stradale. Il problema principale, poi mai aggirato, furono le gomme. Quali avrebbero retto tale carico a quella velocità? Il design, incredibilmente quasi immutato rispetto al prototipo, è opera di Keith Helfet, designer che trovò un’ispirazione utile a velocizzare il processo di realizzazione attraverso la bellissima carrozzeria della XJ13 disegnata da Malcolm Sayer: genio legato indissolubilmente al marchio del giaguaro.
Gli ingegneri Jaguar affinarono l’originale unità V6, alla fine accreditata di 550 cv e 645 Nm erogati rispettivamente a 7.200 e 4.500 rpm. Il nuovo propulsore e la sola trazione posteriore fecero parte di un compromesso forse meno esotico ma più leggero, potente e veloce rispetto al primo presentato nel 1988. Venne mantenuto l’effetto suolo (la prima stradale a sfruttarlo), con estrattore posteriore e ala mobile, ma ruote posteriori sterzanti e assetto adattivo vennero eliminati contribuendo a rendere la grande Jaguar difficile da guidare e quindi, roba da piloti. La delusione creatasi a seguito delle promesse mancate, non riuscì a compensare gli incredibili dati raggiunti alla voce prestazioni. Toccare i cento chilometri l’ora da ferma in 3,7 secondi, raggiungere 342 Km/h di velocità massima ed emissioni relativamente inferiori alla media, non furono elementi sufficienti a evitare il ricordo della Jaguar XJ220 come una promessa in gran parte mancata. Ciononostante resta tutt’oggi uno dei modelli più esotici e rappresentativi mai realizzati. Un’opera d’arte su ruote che ha stravolto le avversità e cristallizzato l’immagine di quel favoloso decennio analogico, ormai sempre più vicino a trasformarsi per sempre.