Monaco Grand Prix Historique 2018: Legendary Tales
LEGENDARY TALES
MONACO GRAND PRIX HISTORIQUE
Testo di Andrea Balti
Fotografie di Gian Romero
Avrò percorso a malapena una dozzina di passi in mezzo al paddock e mi sto già domandando in che anno sia finito. Eppure sono sicuro che i viaggi nel tempo non esistano, o è soltanto questione di punti di vista? Muovendo rapidamente la testa da destra a sinistra, cerco di catturare con gli occhi la frenesia di meccanici e piloti che stanno facendo gli ultimi interventi sulle vetture, prima di dover spostare le auto e disporle in fila per schierarsi nei box e quindi entrare in pista per le qualifiche. È incredibile vedere la maniacale cura ed attenzione per i dettagli, dalla semplice lucidatura delle scocche in vetroresina, sino a quell’uomo che da oltre mezz’ora è infilato nell’abitacolo, a testa in giù, spruzzando uno spray alla base della pedaliera di una McLaren di oltre quarant’anni fa. Per non parlare degli innumerevoli interventi a cuore aperto, sotto una tenda in mezzo a centinaia di persone che corrono avanti e indietro come uno sciame di vespe – l’unica differenza è che non c’è alcun ronzio di sottofondo, tutto ciò che riesco a sentire è il fortissimo boato dei motori delle più svariate Formula 1 presenti ed un odore che mescola benzina, olio, gas di scarico, freno, pneumatico … insomma, qualsiasi cosa vi possa venire in mente. Come ogni due anni, il Grand Prix Historique di Monaco sta prendendo il via ed il Principato è pronto ad accogliere vetture e piloti leggendari, per rivivere quei tempi in cui per tagliare il traguardo a fine gara si doveva possedere degli attributi non indifferenti.
Introdotto nel 1997 e giunto quest’anno alla undicesima edizione, il Monaco Grand Prix Historique è ormai una vera e propria istituzione nel mondo del motorismo, rappresentando senza dubbio uno degli appuntamenti chiave nel panorama delle competizione storiche. Anche il fascino del circuito cittadino di Monaco, pronto ad accogliere le F1 odierne qualche settimana dopo, aiuta e rende gli scorci monegaschi ancora più vividi, grazie al fatto che il tracciato sia cambiato pochissimo, quasi per nulla se facciamo eccezione di un logico miglioramento per quel che riguarda le barriere di protezione, una volta davvero improvvisate ed estremamente pericolose. L’Automobile Club de Monaco riesce a mettere insieme un evento a dir poco strabiliante, in grado di unire la passione per le corse con la voglia di sentire ruggire dei veri e propri motori, senza dimenticare che ci si trovi di fronte a pezzi più unici che rari e di grande valore, come le vetture anteguerra che formano il primo gruppo, una delizia per gli occhi vederle ferme nel paddock, figuriamoci trovarsi a pochi metri da loro quando entrano nelle strette curve del Principato. Bugatti, Frazer Nash, Era, Amilcar e Delage sono soltanto una delle tante chicche che attendono spettatori ed appassionati venuti da tutto il mondo per un weekend senza eguali.
Le manche si alternano sotto il sole del sabato mattino e si passa da F2, F3 e vetture da competizione a ruote scoperte, sino a sportive di razza con motore anteriore. Anch’esse non si risparmiano e sfiorano le barriere di protezione, entrano in chicane di traverso e ne escono a pochi millimetri dal disastro totale. Il pubblico trattiene il fiato, acciglia la fronte al passaggio delle più rumorose, ma sorride perché consapevole di vivere un’emozione ormai lontana dal mondo delle corse attuale. Aston Martin, Ferrari, Jaguar, Maserati, i grandi nomi ci sono tutti e le lancette dell’orologio corrono veloci, troppo veloci. Approfittando di qualche pausa entrano in pista alcune storiche stradali, come una Ferrari Daytona, una Jaguar E-Type, una XK Roadster e poi sfilano addirittura una Lamborghini Espada e la Marzal, concept car presentata nel 1967 a Ginevra, non certo una cosa che capita di vedere tutti i giorni. La categoria D è composta dalle Formula 1 dal 1961 al 1965 e quindi troviamo numerose Lotus, ma anche Brabham, BRM, Cooper e così via. Il passo aumenta, i rischi corsi da piloti e gentlemen drivers anche e proprio non riusciamo a staccare i nostri avidi sguardi dalla pista, cercando di goderci ogni singolo attimo di un evento che ti catapulta totalmente negli anni d’oro del motorsport. Gruppo E con F1 dal ’66 al ’72 e gruppo F con F1 dal ’73 al ’76, le sagome si fanno più aerodinamiche, arrivano enormi spoiler all’anteriore ed al posteriore, inconfondibili certi colori e sponsor, divenuti autentici simboli, esattamente come il gruppo G con F1 dal ’77 all’80. C’è anche spazio per una parata di moto d’epoca ed anche in questo caso la colonna sonora che regalano, unita all’utilizzo di tute e caschi (nella maggior parte dei casi) dell’epoca, ricrea un’atmosfera davvero impagabile. Ciliegina sulla torta, la sfilata di F1 Heritage, un più ristretto numero di vetture condotte da piloti di elevata caratura come Mika Hakkinen, Thierry Boutsen, John Watson, Riccardo Patrese, Eddie Irvine, Mark Blundell. Il giorno seguente, la domenica delle gare, il meteo è stato meno magnanimo e come spesso accadeva durante gli indimenticati successi del magico Ayrton Senna, la pioggia ha reso tutto più pericoloso e costretto i piloti a prestare molta più attenzione del solito.
Ma a differenza di vincitori e vinti, senza nulla togliere a chi ha tagliato il traguardo davanti a tutti, ciò che emoziona di più di questa kermesse monegasca da appuntare a caratteri cubitali ogni due anni sul vostro calendario è l’atmosfera che si respira, la naturalezza con cui si interviene su motore, assetto, freni, sospensioni. Non c’è l’esasperata tecnologia contemporanea o il senso di distaccamento che può provare un profano che osserva tecnici e meccanici della F1 attuale. Questi meccanici si sporcano le mani, stringono ed allentano bulloni e per parlare con i propri piloti strillano, una volta che rientrano ai box per vedere che le perdite d’olio non siano eccessive. Questa Formula 1 è viva e trasuda passione e vita sin dal momento in cui metti piede nel paddock e vieni investito da un mondo completamente diverso rispetto a quello a cui siamo ormai abituati. Non c’è nulla di scontato e vedere piloti con qualche primavera sulle spalle, infilarsi negli stretti abitacoli ed essere esposti con quasi tutto il busto fuori dalla vettura è pazzesco. Passeggi nella pit-lane, a pochissimi centimetri da ogni vettura e osservi gli sguardi concentrati e soddisfatti di chi a breve percorrerà uno dei circuiti più magici al mondo – non riesco nemmeno a immaginare come possa essere affrontare il tornante del Fairmont al volante di una Ferrari ex-Lauda, tagliare di netto e buttare giù il gas con la giusta intensità per non rischiare un possibile testacoda, tutto mentre si opera uno sforzo disumano sul volante, gettandosi verso la curva successiva per entrare così nel tunnel a velocità che fanno rabbrividire.
Il Circuito di Montecarlo è unico, ma queste auto sono le vere protagoniste della situazione e così percorro più strada a piedi in questi due giorni di quanto faccia in tutto il resto del mese, cercando di riconoscere ogni vettura – anche quelle che tagliavano il traguardo quando io dovevo ancora nascere – e mi rendo conto che quello che manca al motorsport oggi sia proprio questo rapporto puro che rende pilota e macchina una cosa sola e che permette agli spettatori di apprezzare realmente uno sport sempre meno analogico. Forse i viaggi nel tempo esistono davvero, e credo che questo sia il modo e soprattutto il luogo migliore per scoprire perché le Ferrari siano rosse, le Bugatti azzurre, o più semplicemente perché tutti, da bambini, saremmo voluti diventare piloti di Formula 1.